Ho voluto tradurre questa intervista in quanto mostra come il pericolo fascista vada di pari passo con la repressione statale; inoltre ci mostra una serie di tattiche e di intuizioni che, partendo dal basso, cercano di contrastare la rabbia montante della alt-right americana e di tutta la galassia dei gruppi Neonazi. Non voglio dire che questo scritto sia vangelo: naturalmente è scritto basandosi sull’esperienza personale di Kieran all’interno della scena Antifa americana e quindi difficilmente trasportabile al di fuori di quell’area. Però contiene spunti interessanti, come l’autodifesa dal basso delle comunità. Qui in Italia siamo ancora distanti anche solo dal pensare una cosa del genere ed anzi bisognerà ricostruire una coscienza antifascista realmente organizzata e ramificata, lontanissima dalle istituzioni e che invece riesca a mettere radici nei più oppressi, che sono sempre i primi a sollevarsi, anche solo per disperazione. Buona lettura.
Questa intervista con l’attivista antifascista Kieran (uno dei fondatori di Three Way Fight tredici anni orsono), copre una vasta gamma di argomenti: dal lavoro di Anti-Racist Action negli anni ’80 e ’90 al comitato generale di difesa dell’IWW ai giorni nostri, dalla politica dell’indossare maschere al pericolo del fare affidamento sullo Stato per ciò che concerne la protezione e dall’impegno nel lavoro organizzato alla costruzione dei gruppi di autodifesa comunitaria contro l’estrema destra. L’intervista è andata in onda il 14 Febbraio 2017 all’interno del programma Against The Grain di KPFA Radio ed è stata condotta da Sasha Lilley. Chi volesse scaricare l’audio o ascoltare online vada a https://kpfa.org/episode/against-the-grain-february-14-2017/ . La seguente trascrizione ha ottenuto il permesso di Against The Grain e dei partecipanti.
Kieran è stato uno dei fondatori dell’Anti-Racist Action, un movimento giovanile di azione diretta organizzatosi contro i Naziskin, il Ku Klux Klan e la scena musicale legata al white power tra gli anni ’80 e la prima decade del nuovo millennio. Ora è rappresentante sindacale di un sindacato locale di lavoratori del settore della telefonia, nonché membro del comitato generale di difesa dell’IWW, impegnato in attività antifasciste in numerose città. A fine Gennaio, un membro del comitato generale di difesa dell’IWW è stato colpito da uno sparo ad un evento di Milo Yiannopoulos a Seattle. Against The Grain, un programma di idee radicali in onda su KPFA Radio, ha fatto quattro chiacchiere con Kieran dopo che i manifestanti hanno impedito a Yiannopoulos di parlare al campus universitario di Berkeley il 1° Febbraio.
ATG: Kieran, molti liberali e persone di sinistra credono che la libertà di parola sia fondamentale. Come ben sai, alcuni manifestanti hanno usato tattiche militanti per impedire a Milo Yiannopoulos di tenere il suo evento al campus universitario di Berkeley, che tra le altre cose è la casa del Free Speech Movement. Perché credi che il diritto di parola non debba essere esteso anche ai fascisti e all’estrema destra?
KIERAN: Ci sono due punti da tenere presenti. Credo che sia una questione sia tattica sia strategica. Bisogna comprendere che quella che stiamo facendo non è opposizione al diritto di parola dei fascisti, ma opposizione all’organizzazione dei fascisti. Quindi, ad esempio, sul mio posto di lavoro ci sono lavoratori con una vasta gamma di opinioni su tutta una serie di questioni. E talvolta mi capita di imbattermi in persone influenzate dalle politiche di estrema destra. In quelle circostanze non avrebbe senso per me iniziare una lotta, una lotta fisica con un collega perché ha paventato delle prospettive che arrivano da quel background. Ma quando ti trovi ad avere a che fare con un’organizzazione o con una personalità che usa il quadro di un discorso pubblico o di un forum o di un evento per fare avanzare degli obiettivi politici, la situazione è completamente differente. E così il modo in cui consideriamo questa cosa è lo stesso modo in cui dovremmo considerare ogni tipo di organizzazione simile, fatto da gruppi di quel tipo per propagandare quegli ideali. Nel caso del campus universitario di Berkeley, Milo Yiannopoulos, questa celebrità, questo provocatore stava cercando chiaramente di far progredire un certo tipo di politica, con lo scopo di modellarla con le forme di un movimento. Abbiamo capito che intendeva cacciare gli studenti di Berkeley senza documenti con il solo scopo di porli sotto attacco delle forze dell’immigrazione di Trump. Quindi, date le circostanze, non potevamo permettere che questo attacco non avesse nessun contrasto. Credo che guardando la faccenda da questo punto di vista si possa capire l’utilità del provare ad opporci. Attendere che queste persone creino il terreno adatto e una base di supporto adeguata per le loro azioni aggressive non ci permetterebbe poi di contenerli. Quindi il modo con cui approcciamo i fascisti e l’estrema destra non è basato sulla questione della libertà di parola, ma sul fatto se dobbiamo lasciar loro lo spazio per riuscire ad organizzarsi per attuare i loro programmi. Noi diciamo che questo spazio non lo dobbiamo lasciare. Li affronteremo. Cercheremo di fermare il programma. Cercheremo di fermarli.
ATG: Parliamo dei rischi che correte. La sera dell’Inauguration Day un membro dell’IWW è stato colpito allo stomaco da una pallottola esplosa da un supporter di Milo Yiannopoulos a Seattle. Cosa è avvenuto quella sera e quali sono ora le condizioni del militante?
KIERAN: Hai detto bene. La sera dell’inaugurazione della presidenza Trump, Yiannopoulos stava parlando all’Università di Washington a Seattle e fuori c’era una grande dimostrazione contro di lui, con svariate formazioni politiche. Ovviamente c’erano anche molti sostenitori di Trump e Yiannopoulos. Quindi si è venuto a creare un certo conflitto là fuori. In quella situazione, mi pare di avere capito (io non ero lì) che un manifestante di estrema destra iniziò a spruzzare del gas lacrimogeno o qualche altra sostanza chimica verso i contestatori di Trump e Yiannopoulos e che un membro del comitato generale di difesa dell’IWW abbia cercato di fermare questa persona, prendendosi una pallottola nello stomaco, come hai detto. Potenzialmente ha subito un danno mortale. È stato in terapia intensiva molti giorni. Si è sottoposto ad almeno due interventi chirurgici. Quindi si può dire che ha subito un attacco mortale. Ad oggi non sono state mosse accuse verso la persona che ha sparato. Da ciò che abbiamo compreso in base alle notizie rilasciate dagli organi di informazione, si direbbe che la persona che ha sparato sia andata dalla polizia a rilasciare una dichiarazione ed è stata rilasciata senza accuse a proprio carico. Questo è un cattivo segno sulla piega presa dalla situazione, un cattivo segno che prendiamo molto seriamente. Perché, stando a ciò che appare, sta passando il messaggio che si possa tranquillamente sparare agli antifascisti senza subire conseguenze e questo è molto pericoloso.
ATG: Infatti. La scorsa estate ci fu uno scontro tra militanti radicali e suprematisti bianchi a Sacramento, California, dove un certo numero di persone subì degli accoltellamenti e non ci furono conseguenze.
KIERAN: Esatto. Credo che questo ci porti ad affrontare un discorso più ampio, ovvero che non possiamo fare affidamento sull’applicazione della legge né tanto meno sullo Stato per difendere le nostre comunità o gli antifascisti. Alcuni antirazzisti vogliono ancora provare a chiedere allo Stato di applicare la giustizia, mentre il nostro approccio è un po’ diverso. Noi crediamo che lo Stato non sia neutrale, che esso è costruito su di una storia fatta di sfruttamento e di oppressione e rappresenta solo le persone che sono al vertice del sistema e difendono i loro interessi. Quindi quando ci organizziamo, non lo facciamo sperando che lo Stato o la polizia ci proteggano o cerchino di fare giustizia per noi, ma cerchiamo di costruire movimenti che siano autosufficienti e basati sull’autodifesa della comunità, sull’autodifesa popolare.
ATG: Ci sono stati diversi dibattiti tra i progressisti e le persone di sinistra inerenti l’uso di tattiche militanti. In alcuni casi sono delle continuazioni delle istanze uscite dal movimento Occupy, altre volte si ritorna ancora più indietro, ma comunque sia vi sono opinioni contrastanti. A sinistra non c’è nessuna unità riguardo a queste tematiche, sia che si tratti di pensare ad attuare danni alle proprietà sia di dover impedire lo svolgimento di un evento. Esistono momenti dove le tattiche militanti non sono richieste? Occorre valutarne l’uso strategicamente tra altre possibilità tattiche?
KIERAN: Si, credo sia proprio un discorso di tattiche. Detto questo, credo anche che vi siano dei principi fondamentali e che questi principi guidino le tattiche che vogliamo tratteggiare per organizzarci a tutti gli effetti. Bisogna pensare che ci sono molte situazioni differenti nelle quali si incontrano i destrorsi e i fascisti e capita o che non si abbiano i mezzi per interrompere le loro attività o per contrastare la loro organizzazione o al contrario si riescano ad enfatizzare i tentativi di minare le loro capacità di sviluppare le basi sulle quali poggiano. Così non è mai stata solamente una questione di tattiche militanti. Certo, queste fanno parte della nostra strategia, ma non ci si basa solo su quelle. Gran parte del nostro lavoro viene fatto sui cuori e le menti delle persone che i fascisti intendono reclutare. Così, oltre alle tattiche militanti contro la loro organizzazione, abbiamo sempre cercato di rapportarci con le comunità che i fascisti stanno puntando. Lo facciamo parlando con la gente, tramite dei volantini, creando eventi culturali e concerti per cercare di connetterci con le persone che fanno parte della comunità e che già in nuce hanno degli impulsi antifascisti, magari per la loro identità o per il loro modo di vedere il mondo. Cerchiamo far passare il messaggio che il programma che la destra e i fascisti stanno cercando di propinare non fa gli interessi della classe operaia e che se questi programmi verranno attuati saranno pericolosi e divisivi e ci porteranno incontro a una catastrofe comune. Infatti, le preoccupazioni che le persone hanno possono essere meglio affrontate all’interno di un movimento organizzato unitario, multirazziale, multiculturale, antifascista e che sfidi il sistema.
ATG: Uno dei punti usciti dai vari dibattiti – portato avanti anche dalla sinistra e non solo dai liberali – è che le tattiche militanti possono essere alienanti per coloro i quali vogliono costruire un’opposizione di base il più ampia possibile contro la destra. Come rispondi a questa argomentazione?
KIERAN: Ho sentito spesso questo argomento e penso che sia vero che a volte ci sia una cattiva organizzazione o una militanza mal costruita. Ma ho sentito spesso questa argomentazione pronunciata da persone sconvolte da come veniamo trattati dai media mainstream o da chi ha tendenze più moderate all’interno dei movimenti sociali. Naturalmente riconosco che queste cose sono importanti per acquisire consapevolezza, ma credo che si ponga anche un problema di persone che va oltre la sinistra corrente: le persone nelle comunità della classe operaia. Persone già sospettose verso i media mainstream e credo di poter dire che sia un fatto che la maggior parte dei proletari rispetti chi si solleva per difendersi, prendendosi anche dei rischi. Quindi quando si leggono notizie di antifascisti, anarchici o radicali che vengono condannati, le persone ricevono queste notizie in modi differenti. Chi è già diffidente verso i media mainstream ha più possibilità di fraternizzare con coloro i quali si sollevano per combattere. Quindi credo bisogni andare molto cauti con queste argomentazioni, in quando tendono a ridurre tutte le nostre tattiche solo a ciò che gli elementi più moderati del movimento si sentono di sostenere e questa non è una ricetta valida per cercare di costruire il tipo di movimento di cui abbiamo bisogno. Non è la ricetta che occorre portare tra le persone più marginalizzate, quelle che sentono maggiormente il coltello del sistema puntato addosso, perché queste persone hanno già un’attitudine antagonista al sistema e al razzismo.
ATG: Vorrei chiederti qualcosa su Anti-Racist Action, un movimento giovanile di azione diretta che si organizzò contro i Naziskin all’interno della scena musicale afferente al white power, movimento che tu contribuisti a fondare. Durò dagli anni ’80 fino ai primi anni 2000. Quanto era esteso questo gruppo? E che tipo di lavoro svolgeva? Noto un rinnovato interesse nei suoi confronti negli ultimi tempi.
KIERAN: Direi che è sorto spontaneamente. Nella seconda metà degli anni ’80 vi fu una polarizzazione politica nella scena punk statunitense e canadese e nello stesso periodo in molte città si formarono bande di Nazi e di suprematisti bianchi. Erano influenzati dagli Screwdriver (una band naziskin) e dalle politiche fasciste del National Front in Gran Bretagna. In risposta a questo si formarono gruppi che si ritenevano antifascisti e antirazzisti; ovviamente queste due tipologie di gruppi non potevano coesistere a lungo all’interno della scena alternativa e della scena punk. Ci furono delle lotte che scoppiarono simultaneamente in diverse città e gli antirazzisti, composti inizialmente da skinhead e qualche punk e gli attivisti anarchici si conobbero grazie ai tour delle band, alla colonna delle lettere della rivista Maximum Rocknroll e ad una fitta rete di corrispondenza; da li iniziarono a fare rete, a costituirsi in gruppi. Anti-Racist Action era l’espressione organizzata di questo primigenio spontaneismo all’interno della cultura giovanile del Nord America. Nel corso degli anni la rete si è ampliata, includendo persone provenienti da altre sottoculture, quali il graffitismo, l’hip-hop e il femminismo delle nuove generazioni. Ha anche iniziato ad occuparsi di altri temi, sempre legati al razzismo e al suprematismo bianco. Quindi vi furono branche di Anti-Racist Action che si organizzarono in pattuglie di sorveglianza delle forze dell’ordine contro la brutalità della polizia, che parteciparono alle proteste contro la violenza poliziesca. Vi fu chi difese le cliniche abortiste dagli attacchi dell’estrema destra cristiana e molti alti fronti sui quali si era attivi. Al proprio picco, la rete arrivò ad includere migliaia di ragazzi in Nord America che si autorganizzarono nelle loro città ed all’interno delle loro scene di appartenenza, che pubblicarono fanzine e tennero concerti benefit e, soprattutto, ogni volta che i fascisti provavano a fare qualcosa, vi si opponevano. Ad un certo punto, siamo a metà degli anni ’90, un gruppo del Ku Klux Klan tentò di organizzare una serie di manifestazioni nel Midwest. Nel corso degli anni ci furono manifestazioni in piccole e grandi città dell’Ohio, Indiana, Wisconsin e Michigan. Anti-Racist Action è la stata la chiave per organizzare la resistenza in tutti questi posti. Questo ha significato soprattutto essere in queste città e parlare con la gente, con i giovani, mettersi in collegamento con loro. Fu un successo. Ci furono numerose branche di Anti-Racist Action sia nelle piccole città sia in quelle più grandi dove la sinistra era più forte. Credo di poter dire che quel movimento, che come tutti i movimenti ha avuto un sacco di problemi, abbia fattivamente contribuito ad arginare ed in alcuni casi a sconfiggere le organizzazioni fasciste negli Stati Uniti.
ATG: Ma l’estrema destra come considerava Anti-Racist Action? La vedeva come una seria minaccia alle loro organizzazioni?
KIERAN: Assolutamente si. Eravamo la più grande forza che abbiano dovuto affrontare per le strade. Erano molto consapevoli di cosa fosse Anti-Racist Action. In ogni località ci furono dei conflitti, molti ne furono turbati o intimiditi, altri si ritrovarono la casa ricoperta da graffiti, o venivano fatte telefonate a casa dei genitori con minacce fasciste. Ci vedevano come un ostacolo alle loro agibilità, soprattutto alla loro agibilità di organizzarsi all’aperto, in pubblico e negli spazi contesi. Credo che il picco sia stato nel 1998 a Las Vegas, quando il weekend del 4 Luglio una coppia di skin antirazzisti, uno bianco e uno di colore, entrambi noti nella scena ed attivi in Anti-Racist Action, furono rapiti da una banda di suprematisti bianchi e furono poi torturati, uccisi e abbandonati nel deserto. Quindi c’è gente che è morta combattendo all’interno di questo movimento. È stato molto pesante per me e gli altri compagni del movimento, così come è stata dura la sparatoria di Seattle, soprattutto quando si sente gente che si lamenta per la possibile violazione dei diritti di Milo Yiannopoulos.
ATG: Permettimi di farti una domanda per chiarire un punto. Hai menzionato più volte gli skinhead antifascisti ed antirazzisti. Credo che la maggior parte della gente però associ gli skinhead a fascisti e razzisti, non viceversa.
KIERAN: Si, è vero. La cultura skinhead è arrivata negli Stati Uniti dalle band britanniche. Laggiù la cultura skinhead inizialmente partì da una scena multirazziale, pesantemente influenzata dagli immigrati giamaicani. La cultura skin è stata molto contesa. Gli skinhead antirazzisti hanno fatto una campagna molto forte, sostenuta dal fatto che gli skinhead originali erano multirazziali e non certo razzisti. Negli Stati Uniti, tra le branche originali di Anti-Racist Action e i primi skin che combatterono contro il suprematismo bianco, vi erano molti giovani di colore. C’erano skinhead afro-americani. A Chicago c’erano degli skin portoricani. A Minneapolis degli skin nativi americani. Tutti furono una parte consistente ed importante delle lotte contro il razzismo.
ATG: Torniamo al presente, traslando la lezione di due decadi di storia di Anti-Racist Action alla situazione attuale dove, con l’ascesa di Trump, l’estrema destra si è fatta coraggio. Parte di questa destra, la cosiddetta Alt-Right, lavora meno nelle strade, dando una grande priorità alla propaganda su internet, sebbene sul terreno rimangano dei gruppi. Ci puoi dire qualcosa sul comitato di difesa generale dell’IWW ed il suo approccio politico per contrastare nella pratica i fascisti e i razzisti?
KIERAN: Certamente. Credo intanto che tu abbia descritto bene la situazione attuale. Siamo passati da una situazione in cui ci dovevamo concentrare sulla crescita e sulla costruzione di organizzazioni fasciste e suprematiste bianche ad un’altra dove, improvvisamente, soprattutto nella alt-right, ci siamo trovati davanti a questa propaganda massiva di idee fasciste e quindi la faccenda non riguarda più la crescita di gruppi neonazi in determinate città ma che gli studenti repubblicani dei college stanno propagandando idee alt-right. Inoltre tutta questa circolazione sui social media fa si che queste idee siano divenute parte del dibattito pubblico, in un modo che né i gruppi neonazisti né il Ku Klux Klan hanno mai potuto ottenere in passato. Quindi la situazione è molto seria e credo che ciò che il comitato di difesa sta cercando di fare, di formulare, è un tentativo per connettere le idee di autodifesa comunitaria, autodifesa popolare ed antifascismo con la necessità di coltivare una nuova base fondata sulla classe operaia. Non ci si può basare solo su una ristretta squadra elitaria antifascista che porta a termine delle operazioni pure vittoriose. Ciò di cui abbiamo bisogno è di unire le masse proletarie di tutte le comunità e le identità. Questo è ciò che serve per sconfiggere le politiche che Trump sta portando avanti all’interno del sistema che lo ha generato. Credo che fino a che noi saremmo fieri di essere militanti antifascisti e prenderemo seriamente le nostre identità e le nostre tattiche, non ci vorremmo marginalizzare, non vorremmo diventare quello che Lorenzo Kom’boa Ervin chiama un’avanguardia che va contro un’altra avanguardia, dove la gente vede solo due bande di strada che si scontrano e non riesce a vedere realmente le loro esigenze e le richieste che esprimono. Invece noi vogliamo provare a organizzarci con i lavoratori ed i nostri vicini all’interno di una risposta popolare al fascismo in modo tale che, quando passiamo all’azione, non siamo solo un piccolo manipolo di persone, ma una vera espressione della comunità e della classe operaia presa nel suo complesso.
ATG: Ed in pratica questo come avviene?
KIERAN: Credo avvenga in molti modi, dipende da come ne parliamo, da chi tentiamo di coinvolgere nelle nostre azioni. Da come riportiamo e riassumiamo queste azioni, da come decidiamo se hanno avuto successo o meno. Quindi non si tratta solo di una questione volta a verificare se saremo in grado di interrompere un certo evento, ma anche e soprattutto di essere in grado di sviluppare una base interna alla comunità o alla classe operaia che poi sia in grado di dare continuità nello scontro con i fascisti e rendere difficoltoso per loro organizzarsi e crescere. Un esempio concreto fu quando i neonazisti pianificarono di organizzarsi contro un programma antirazzista messo in piedi dalla YWCA di Minneapolis qualche anno fa, che noi abbiamo considerato un attacco a tutta la comunità. Abbiamo organizzato dei volantinaggi nei dintorni. Abbiamo incoraggiato i vicini ed i membri della comunità ad uscire allo scoperto, abbiamo tenuto un incontro pubblico. Abbiamo dato la possibilità ai vicini e ad altre organizzazioni di prendere parte alla contro azione. Alcuni gruppi riformisti di sinistra che parteciparono mossero critiche ad ogni tipo di militanza attiva. Abbiamo discusso con loro in riunioni aperte a tutti, in modo tale che le persone potessero giudicare da sole quale tattica sarebbe stata la migliore. Io stesso, che a Minneapolis facevo l’allenatore di calcio dei ragazzini, ho parlato e fatto conoscere le nostre idee ai genitori dei ragazzi, dato che vivevano tutti nel nostro quartiere. Ho distribuito materiale sul posto di lavoro. La nostra idea era di costruire una difesa popolare. I fascisti non hanno solo attaccato un gruppo di persone, ma dimostrano di poter andare contro comunità enormi, contro una classe sociale. Indeboliscono questa classe. Quindi necessitiamo di una risposta popolare. In molti, su entrambi i fronti, tentano di disgiungere il concetto di risposta della massa da quello di risposta militante, dicendo che una cosa esclude l’altra. Noi combattiamo questo punto di vista, crediamo che entrambe le posizioni siano necessarie. Non è facile. Non ci sono formule preconfezionate, dobbiamo sperimentare. Probabilmente andremo incontro a degli sbagli, a degli sbilanciamenti in un senso o nell’altro, ma quello è il nostro obiettivo. Costruire un movimento militante di massa che includa il maggior numero possibile di persone e che utilizzi tattiche diverse per affrontare questa minaccia.
ATG: Capita frequentemente che quando le persone sono coinvolte in una qualche azione indossino maschere o adottino comunque degli stratagemmi per evitare di essere identificati dalla polizia o riconosciuti dall’estrema destra. Ma cosa succede se questo anonimato consente alle persone di diventare dei vigilantes, mischiati agli altri radicali presenti nelle azioni? Come viene affrontata questa tensione tra l’azione militante e la responsabilità?
KIERAN: La questione delle maschere è una delle più dibattute all’interno del comitato di difesa e di altri circoli più ampi, ma non sono certo che la questione della responsabilità sia la principale. Concordo col fatto che ci dovrebbe essere un più alto senso di responsabilità sia individuale sia di gruppo (mi verrebbe addirittura da dire di classe), ma si deve discutere su cosa si intenda con responsabilità. Ad esempio alcune sezioni del movimento insistono sul puntare su di un quadro strettamente legalitario, adducendo come argomento che qualunque cosa al di fuori della legalità minaccia i più vulnerabili ed oppressi. Dobbiamo contrastare questa argomentazione: sono sempre coloro i quali sentono più alta la pressione a fare esplodere una vera militanza e, se altri poi si uniscono alle lotte, tutto ciò rappresenta un importante atto di solidarietà. Dobbiamo rigettare la responsabilità verso la legge o verso quelle forze intestine al movimento che vorrebbero consegnare dei compagni alle autorità. Detto questo, credo che sia vero che i gruppi ed i singoli individui debbano essere responsabili verso le loro decisioni tattiche – e non sto parlando solo di chi indossa una maschera, ma di tutti coloro che sono coinvolti in una qualche azione. Ognuno dovrebbe essere responsabile di lavorare con la polizia (un atto che ci mette tutti in pericolo) o della linea politica esposta su striscioni, volantini, cori, eccetera. In altre parole tutte le tattiche dovrebbero essere aperte al dibattito e alle critiche. Per entrare nello specifico della tua domanda, le maschere possono nascondere un’identità individuale e quindi evitare che quel singolo individuo sia responsabile, ma generalmente i militanti dei movimenti politici, soprattutto quando sono sulla piazza da molto tempo, hanno un’idea piuttosto precisa delle differenti forze coinvolte e il fatto di non conoscere il nome di un individuo non li ha mai fermati dal criticare determinate azioni, giusto o meno che sia. La questione che stiamo dibattendo qui sulle maschere è un po’ diversa, stiamo parlando del fatto se siano o meno efficaci per la sicurezza. Non tanto se riescano a nascondere un’identità, diamo per buono che quello lo facciano. Ma abbiamo notato che se ti mascheri insieme ad un piccolo gruppo di persone posto all’interno di una dimostrazione più grande, la polizia si focalizzerà proprio su quel gruppo e quindi invece di mimetizzarti finisci al centro dell’attenzione. Gli sbirri non ti riconosceranno subito, ma una volta messe le persone mascherate nel mirino potrebbero attendere il momento buono per circondarle, trattenerle e successivamente identificarle ed arrestarle. Abbiamo visto succedere questa cosa almeno un paio di volte. Questo ci dice che la sicurezza la può garantire solo il fatto di avere una forte e convinta base di lavoratori di supporto per l’organizzazione e per i progetti che si vogliono mettere in atto. Persone normali che hanno un ruolo nell’organizzazione, che capiscono la necessità dell’azione militante, che sono disposti a levarsi e a difendersi reciprocamente, sia politicamente sia fisicamente, che non se ne fottono se un compagno o un amico viene attaccato od arrestato. Questa è una forma di sicurezza molto più importante e reale, ma spesso si perde all’interno di un desiderio estetico di un certo look militante che prevede anche le maschere. Un altro argomento correlato è che le maschere possono rendere difficoltoso lo sviluppo di una conversazione durante le azioni, per discutere o scambiarsi argomenti. C’è anche il rischio reale che le gente possa entrare in confusione e non capire per cosa realmente si battano le persone mascherate – e non sto parlando solo di pacifisti liberali. L’esperienza del comitato generale di difesa durante le lotte per ottenere giustizia per Jamar Clark (un giovane operaio afroamericano ucciso dalla polizia di Minneapolis nel 2015) fu che diverse volte dei militanti della comunità del Northside, dove Jamar era nato e cresciuto, si dimostrarono piuttosto sospettosi verso le persone in maschera che stavano in mezzo a loro. Questo sentimento fu esacerbato dal fatto che un gruppo di suprematisti bianchi mascherati attaccò il luogo della protesta sparando e ferendo seriamente quattro persone. Quindi successe un paio di volte che le persone proveniente da quella comunità cercarono di espellere gli attivisti mascherati dalle dimostrazioni – e non si trattava di amichetti dei poliziotti, ma di militanti di quartiere. Abbiamo passato molto tempo a discutere con queste persone, abbiamo preso le parti dei manifestanti mascherati che furono allontanati, ma in tutta onestà iniziai a pensare: “è davvero una pratica efficace? È questo il miglior utilizzo del nostro tempo?” Nel dire tutto questo, penso che non dovremmo mai escludere le maschere. È una scelta tattica. A fronte di tutti gli esempi negativi di cui sopra, vi sono anche dei contro esempi di persone provenienti da diverse scene che nelle azioni di massa distribuiscono maschere che letteralmente trasformano i militanti; dove questo è successo le maschere distribuite sono state apprezzate e viste come un bene. Il punto è che dovremmo sempre pensare attraverso l’ottica delle scelte tattiche, pesare i pro ed i contro, sempre con il pensiero rivolto a considerare se una data scelta ci aiuterà a costruire e ad espandere una base di lavoratori che combattono il fascismo, lo sfruttamento e l’oppressione.
ATG: Ora sei un rappresentante sindacale di lavoratori del settore delle telecomunicazioni. Quale pensi debba essere il ruolo del lavoro nel combattere la destra? La maggior parte dei sindacati ovviamente non è l’IWW, non si identificano come forza radicale. Ma sebbene i sindacati rappresentino solo una piccola porzione della classe operaia, ad oggi rimangono le sole organizzazioni con membri che sono lavoratori. C’è un ruolo per i sindacati? È realistico attendersi la loro presenza nelle azioni militanti contro la destra?
KIERAN: Credo di si. Se osserviamo dove ci sono stati degli scontri di massa negli anni ’80 e ’90, quando alcune manifestazioni del Klan ottennero un grosso riscontro, dove un gran numero di persone uscì allo scoperto in Michigan, Ohio, Pennsylvania e Indiana, molte volte ci siamo imbattuti in membri dei sindacati venuti per contrastare quella roba. Dobbiamo allontanarci dalla concezione individualista, ovvero dalle singole azioni compiute dai membri di un singolo sindacato, per diventare un’espressione più organizzata. Credo che tu abbia ragione quando dici che i sindacati – insieme alle chiese e ad altri luoghi di culto – sono una delle poche organizzazioni di massa rimaste alla classe. Bisogna unirsi ai sindacati e se la leadership sindacale vuole evitare lo scontro o lo prende sottogamba, dobbiamo costruire gruppi di ranghi e file che siano disposti a prendere le cose seriamente. Al momento, per quella che è la mia esperienza, vedo gente sul posto di lavoro molto interessata a questi argomenti. Se il Klan arriva nella tua città o se ci sono gruppi fascisti che si stanno organizzando, le persone – più persone di quanto ci si aspetti – mostrano interesse nel volersi opporre e credo si possa costruire qualcosa partendo da qui. Credo che il comitato generale di difesa, con le sue origini entro il movimento sindacale, possa svolgere il ruolo di imbarcare dei sindacati o dei lavoratori facenti capo ad altri sindacati che possono essere parte del movimento.
ATG: Terminiamo con quella che forse è la domanda più difficile, ovverosia: nel pensare di opporsi alle destre e alle altre gravi minacce che le persone stanno affrontando oggi negli Stati Uniti, ritieni che il pericolo maggiore provenga dai gruppi fascisti o dalla repressione statale che sta diventando un problema sempre più serio, basti pensare alla deportazione di persone senza documenti partita con Obama e continuata con Trump? E se è così, come si combatte questa repressione?
KIERAN: è una bella domanda. Non credo che la questione vada posta nei termini se sia peggio una cosa o l’altra: credo che lo Stato sia diventato sempre più oppressivo e questo è dovuto al fatto che, nonostante Trump abbia perso il voto popolare e milioni di persone non abbia votato per nessuno dei due candidati, gli rimangono comunque milioni di persone che gli consentono di presentare un mandato per portare avanti certe azioni. Ho letto di recente un articolo in cui si spiegava di come Trump fosse molto attento nell’usare Twitter per scatenare le azioni. Formalmente queste non sarebbero azioni statuali, non richiedono l’intervento dell’FBI per perseguire chi lo critica. Ma usando i social media è in grado di scatenare i suoi sostenitori, utilizzandoli come un fiume in piena di abusi su chiunque venga additato come nemico del momento. Le cose sono due. C’è il pericolo che aumenteranno le deportazioni, che si incrementino i raid, che venga attaccata la capacità delle donne di ottenere assistenza sanitaria per ciò che concerne la riproduzione. Ci sono così tanti attacchi su più fronti che stanno arrivando dallo Stato. Dobbiamo esserne consapevoli e cercare di formare una resistenza. Allo stesso tempo, un altro grande pericolo arriverà dalle forze sul terreno, dove persone che potrebbero essere i nostri vicini di casa si organizzeranno in gruppi destrorsi e fascisti o nel caso migliore faranno da supporto a che tutto ciò avvenga. Ritengo che alcune delle nostre strategie e delle nostre tattiche possano essere utili per entrambi questi pericoli. Quando parliamo di autodifesa organizzata delle comunità, non è solo per difendersi dai fascisti o solo per difendersi dallo stato, ma per difendersi da qualunque attacco arrivi, da qualsiasi direzione. Anche dagli attacchi antisociali, sessisti o razzisti provenienti dall’interno delle comunità stesse. Quindi sono convinto che la strategia che abbiamo scelto per il breve termine, ovvero l’autodifesa organizzata delle comunità, sia il metodo migliore per difendersi su tutti i fronti.
Three Way Fight
Traduzione di Luca Filisetti
Three Way Fight è un blog che promuove analisi antifasciste rivoluzionarie, strategie ed attivismo. A differenza degli antifascisti liberal, crediamo che la “difesa della democrazia” sia un’illusione, in quanto questa “democrazia” è basata su di un ordine socio-economico che espropria e opprime gli esseri umani. Il capitalismo globale e le relative strutture di oppressioni patriarcali, eterosessiste, razziali e nazionali rappresentano le principali forme di violenza e di sofferenza per l’umanità. Il suprematismo dell’estrema destra ed il terrorismo hanno origine in questo sistema e non potranno essere sradicati fino a che il sistema resta in piedi.